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Chiara, ricercatrice terlizzese in Australia: «Ecco come studiamo la gestione italiana del virus»

Gianpaolo Altamura
Gianpaolo Altamura
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26 anni, laureata in Economia e Management della Sanità, Chiara Berardi sta muovendo i primi passi nel campo della ricerca accademica in un'università australiana
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L’Italia, come è noto, è stata il primo paese occidentale a dover fronteggiare l’emergenza Coronavirus, con tutte le difficoltà e criticità del caso.

Se, infatti, una paese come la Cina ha potuto implementare strategie di contrasto al virus più stringenti e autoritarie, applicando un modello per così dire autocratico, il nostro esecutivo ha dovuto gestire una situazione del tutto inedita con mezzi rivelatisi giocoforza inadeguati a un simile, complesso scenario. Il risultato è che il sistema sanitario nazionale è andato fatalmente in crisi e l’Italia, in qualità di “capofila” dell’emergenza tra gli stati occidentali, è andata a finire immediatamente sotto le luci della ribalta internazionale. Per capire meglio come il caso italiano sia considerato all’estero, abbiamo intervistato una nostra giovane concittadina che vive in Australia, Chiara Berardi.

Nata a Terlizzi 26 anni fa, Chiara si è laureata in Economia e Management della Sanità a Bologna e attualmente sta muovendo i suoi primi passi nel campo della ricerca accademica. Qual è stato il tuo percorso finora?

Doponessermi laureata in Economia e Management della Sanità a Bologna, ho proseguito i miei studi dapprima in Australia e poi in Cile,ndove ho ultimato la tesi di laurea tra il 2018-2019. Poiché la mia tesi verteva sulla riforma del sistema sanitario privato cileno, che in quel momento veniva proposto in parlamento, ho lavorato come ricercatrice presso il Ministero della Salute di quel paese. Dopo la laurea ho cominciato a collaborare ad ulteriori progetti di ricerca di economia e politica sanitaria presso l’Università di Newcastle, tornando un’altra volta in Australia. Proprio qui, tra qualche mese comincerò il dottorato in Economia.

Qual è stato il tuo approccio di studio all’emergenza Coronavirus?

Io e tutti i membri del mio gruppo di ricerca, in qualità di economisti della sanità, ne stiamo indagando gli aspetti epidemiologici, demografici, tecnologici e soprattutto gli interventi di politica sanitaria ed economica attuati dai governi. Il fine è quello di valutare l’impatto dei diversi indirizzi di policy attutati in diversi paesi del mondo e i suoi effetti. Questo è un progetto molto ambizioso in quanto le misure adottate dai governi nazionali, regionali e locali differiscono, così come i loro risultati. I fattori da analizzare sono: le tempistiche in cui vengono attuate le misure di contenimento, la configurazione del sistema sanitario dei paesi di riferimento, la capacità degli stessi in termini di personale medico e rifornimento di materiali a loro disposizione. Non vanno sottovalutati anche fattori culturali e di comunicazione a livello politico nei diversi paesi.

Perché in Australia hanno deciso di studiare il caso italiano? Quali sono le specificità da voi rilevate?

Nel nostro articolo pubblicato sull’Independent Australia il giorno 5 Aprile (https://independentaustralia.net/life/life-display/how-the-coronavirus-crippled-italy,13763) io e i miei colleghi (Marcello Antonini e il Professore Francesco Paolucci) abbiamo voluto analizzare cosa è andato storto in Italia. Ad oggi, i numeri registrati in Italia sono tragici, una vera tragedia per il nostro paese. Il tasso di mortalità è elevato per motivi demografici ed epidemiologici. La popolazione italiana è la seconda più anziana al mondo dopo quella del Giappone e registra un alto tasso di malattie croniche come ipertensione e diabete tra le fasce più anziane.

Non dipende anche da un diverso modo di intendere il decesso per coronavirus?

Un altro aspetto da considerare è sicuramente la modalità di calcolo del tasso di mortalità nel nostro paese. Tutte le persone che muoiono e risultano positive al coronavirus vengono considerate vittime del virus, anche se la correlazione tra morte e positività al Covid-19 non è direttamente provata. In Germania per esempio non effettuano test post-mortem. Pertanto, la stima delle persone decedute con coronavirus potrebbe essere inferiore al numero effettivo delle morti. Inoltre, in Italia, soprattutto in una prima fase venivano testate solo persone con sintomi riconducibili al virus o quelli nelle fasce più a rischio (anziani e persone con una o più patologie croniche). Questo inevitabilmente porta ad una sottostima dei casi attivi. Quindi il tasso di mortalità potrebbe essere sovrastimato (il tasso di mortalità è rapporto tra morti e casi confermati). In Germania il numero di tamponi è più elevato rispetto all’Italia, il tasso di mortalità risulta del 3%.

A parte le differenze di rilevazione tra i vari stati, avete riscontrato possibili errori nella gestione italiana?

Nel nostro paese, nelle prime fasi dell’emergenza il personale sanitario non è stato testato, come invece è avvenuto in altri paesi. Probabilmente questo ha contribuito ad alimentare il contagio tra il personale medico e di conseguenza una letalità elevata. In Corea, Singapore e Hong Kong il personale è stato da subito testato e messo in sicurezza con un elevato approvvigionamento attrezzature protettiva come mascherine etc. Concentrandoci sulla risposta del nostro sistema sanitario, possiamo concludere che i posti in terapia intensiva per i casi più gravi non erano sufficienti al momento dello scoppio dell’emergenza. Infatti, in quasi tutte le regioni italiane c’è stato un aumento di posti letto negli ospedali e in terapia intensiva. In Lombardia dove il numero dei casi è più elevato, sono stati aggiunti 741 posti in terapia intensiva.

Quali potrebbero essere le motivazioni di questa insufficienza strutturale?

Non possiamo non considerare i tagli alla spesa pubblica che sono stati fatti negli ultimi dieci anni, circa 37 miliardi. Ciò ha comportato il taglio di circa 70,000 letti su tutto il territorio nazionale. Inoltre, in Italia si è registrata una mancanza di personale sanitario e di laboratori per processare i tamponi. Questo ha limitato ulteriormente la pronta risposta del sistema. La decentralizzazione del sistema sanitario italiano a livello regionale ha portato a diversi conflitti tra governo centrale e regioni. Le risposte a livello regionale risultano diversificate. Uno degli esempi più lampanti è la strategia e le modalità di somministrazione dei tamponi sulla popolazione. Per esempio, in Veneto il numero dei test su popolazione totale è stato maggiore (37 test per 1000 abitanti) mentre in Lombardia (17 test per mille abitanti). In Puglia, considerando il più basso numero di casi, sono stati 6 per 1000 abitanti.

Quali strategie di rilevazione e contenimento si potrebbero implementare?

Nell’analisi delle politiche sanitarie e tecnologiche ci sono diversi aspetti che possono essere considerati negli interventi dei diversi paesi: strategia dei test e localizzazione dei casi positivi (cosiddetto tracing). In alcuni paesi hanno utilizzato app per i cellulari per tracciare i movimenti delle persone. Soprattutto in paesi asiatici come Singapore e Corea del Sud. In Italia l’uso di queste applicazioni è limitato per questioni dovute alla privacy. Tuttavia, alcune regioni (Sardegna, Umbria per citarne alcune) hanno sviluppato app che gli utenti possono utilizzare su base volontaria. La risposta nazionale è stata lenta da questo punto di vista e tutt’ora il governo ha formato una task force che sta studiando delle soluzioni che rispettino privacy e che consentano di monitorare la diffusione del virus. Altre modalità di analisi sono le tempistiche nelle misure di mitigazione: in questo senso abbiamo molto da imparare da paesi come Sud Corea e Singapore che hanno attuato screening negli aeroporti (es. controllo della temperatura) ancora prima di registrare il primo caso nei rispettivi paesi. Questi paesi erano pronti in quanto avevano un’esperienza pregressa nella gestione di Sars e Mers. Al contrario, in Italia i controlli sanitari in aeroporto sono stati previsti a partire dalla scoperta dei primi due turisti cinesi positivi, il 29 gennaio. Il primo caso italiano è stato confermato il 20 febbraio. Il primo marzo è stata dichiarata la prima zona rossa. Il 9 marzo tutta Italia è diventata zona rossa. Probabilmente una risposta più immediata e unitaria a livello nazionale avrebbe contenuto la diffusione del virus. Un altro fattore da considerare sono le diverse strategie di lockdown: a seconda delle tempistiche con cui sono state attuate e misure di mitigazione e contenimento, alcuni paesi non hanno avuto necessità di fare il lockdown completo, vedi Singapore o Korea. In Italia il lockdown è stato necessario per “appiattire la curva” in quanto si sono registrati picchi nel numero dei contagi nel mese di marzo (più di 6000 al giorno il 21 marzo) e dei decessi (poco meno di mille il 27 marzo).

Si può dire con certezza cosa c’è stato di sbagliato nella gestione italiana finora?

Nella strategia italiana un ruolo di primo ordine è stato giocato dalle misure frammentarie a livello nazionale, conflitti tra governo centrale e regioni e dalla comunicazione politica fuorviante soprattutto nelle prime fasi dell’epidemia (febbraio). In Italia il lockdown è stato graduale, prima solo zone rosse in alcune città e province di Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna. Solo successivamente tutto il territorio nazionale è stato dichiarato zona rossa. Questo ha portato allo spostamento di un gran numero di persone da nord a sud, contribuendo a diffondere il virus anche nelle regioni del sud, dove i sistemi sanitari sono più deboli di quelli del nord. In Puglia per esempio, dal primo marzo al 25 marzo i casi sono passati da 1 a 1.093 per raggiungere i 3.327 il 17 aprile.

E a livello di comunicazione, di messaggi pubblici?

Purtroppo, la comunicazione politica è risultata fuorviante. Pensiamo a slogan come #Milanononsiferma in cui i politici consigliavano di continuare a condurre vita quotidiane e mondana nonostante fosse in corso una pandemia globale. La tutela della salute è passata in secondo piano nei giorni in cui l’allerta avrebbe dovuto essere alta e in cui si poteva fare la differenza nel limitare l’aumento dei contagi. Inoltre, non va sottovalutato l’aspetto comportamentale dei cittadini che continuano ad infrangere i provvedimenti presi dal governo. Il numero di multe è elevatissimo, quasi 200.000 mila.

Uno sguardo fuori dall’Italia. Cosa emerge?

La Spagna ha reagito lentamente, nonostante l’esperienza italiana. Ad oggi il numero dei casi positivi ha superato quello italiano. Le morti sono poco inferiori rispetto a quelle italiane. La strategia per la somministrazione dei tamponi non è stata stringente fin da subito e, similmente all’Italia, la capacità del sistema sanitario non era adeguata a rispondere all’emergenza. Il tasso di letalità degli Stati Uniti (5%) è inferiore a quello italiano (13%) e spagnolo (10.5%). Il numero di test è 6 per 1000 abitanti e il lockdown è ancora materia molto dibattuta dai cittadini. In Inghilterra, Boris Johnson aveva proposto di seguire la strategia dell’immunizzazione di gregge a metà marzo, esponendo la popolazione al virus non attuando nessuna misura di contenimento. Nel giro di pochi giorni il governo inglese ha ritirato sua strategia. Questo è avvenuto in seguito alla pubblicazione di uno studio dell’Imperial College sugli effetti devastanti che la pandemia avrebbe avuto in termini di perdita di vite umane e di sostenibilità del sistema sanitario, in mancanza di misure di mitigazione.

Si può individuare un modello ideale o comunque preferibile rispetto agli altri?

Le variabili da considerare nell’attuazione di indirizzi di politica sanitaria ed economica sono molteplici e non è possibile eleggere un modello corretto o funzionale a tutte le realtà. Possiamo però affermare che il fattore tempo e quindi tempestività dell’intervento è fondamentale e in alcuni paesi ha addirittura evitato il lockdown completo. A Singapore sono state registrate 11 morti su 6.000 casi confermati nonostante non sia stato attuato un lockdown completo. Il ruolo dell’Unione Europea è stato marginale nel rispondere alla crisi. Gli interventi sono stati prettamente di carattere economico. L’Unione non ha assunto un ruolo strategico e unitario in tutte le altre politiche di riposta e contenimento del virus. Ci aspettano ancora molte sfide nel lungo periodo, tra cui gli effetti sulla salute mentale dovuti all’isolamento, al distanziamento sociale e le conseguenze economiche dirette e indirette che interesseranno aziende e famiglie.

Sembra che il ruolo della scienza, dopo l’evidente crisi sofferta in questi ultimi anni, si sia di colpo rivalutato.

Penso di sì o, almeno, mi auguro che effettivamente sia così nella percezione generale. In passato ci siamo trovati davanti a paradossi in cui pareri tecnici e scientifici sono stati soppiantati da opinioni di carattere politico. A mio modesto parere, il dibattito scientifico deve essere tale e non essere in alcun modo subordinato alle opinioni politiche. La scienza non ha un colore politico. È la politica a doversi servire del parere scientifico per prendere decisioni. Spero che questa emergenza porterà l’Italia a investire maggiormente sulla ricerca. Ricordiamo che la spesa pubblica devoluta alla ricerca e alle università è stata tagliata di circa 2 miliardi di euro dal 2007 al 2016.

Quali sono le tue prospettive future?

Personalmente sogno di tornare in Italia tra qualche anno, una volta finito il dottorato. Ho usato la parola sogno perché spero di avere questa opportunità ma, almeno al momento, non la sento come un’eventualità tangibile. Ho sempre la speranza che le opportunità lavorative che l’Italia potrà offrire saranno almeno pari a quelle che ci sono in altri paesi. Confrontandomi con amici e colleghi che sono nella mia stessa situazione, so che è una speranza molto diffusa tra i giovani italiani che si trovano all’estero. Lavorare in Italia significherebbe investire del nostro paese, apportando competenze accademiche e professionali che gioverebbero alla crescita, allo sviluppo e all’innovazione di cui il abbiamo tanto bisogno. In questo momento di incertezza per tutto il mondo, sento il peso della distanza dalla mia famiglia e dai miei amici in maniera ancora più intensa. Penso che sia un pensiero condiviso e un aspetto con cui molti ragazzi lontani da casa abbiano dovuto fare i conti, considerando che stiamo vivendo questo momento da soli e lontani dai nostri affetti.

martedì 21 Aprile 2020

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