“Gita al faro” di Virginia Woolf

Luciana De Palma
I componenti di una famiglia si muovono tra il tempo vissuto e il tempo della memoria
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Nella casa delle vacanze, in una località costiera, i componenti della famiglia Ramsay sono intenti a discutere dei preparativi per una gita in barca verso il faro. Con loro ci sono alcuni ospiti, tra cui una pittrice e un futuro poeta.

La figura della signora Ramsay, madre mite e moglie devota, spicca su tutte le altre: la sua eccezionale abilità nel mantenere saldi, pur con fatica, i rapporti tra suo marito e i suoi figli, il suo incarnare il principio dell’unità familiare, il suo saper riconoscere nelle cose il necessario divenire ne fanno l’asse portante delle altrui esistenze, la matrice di un solido senso di appartenenza ai luoghi e al tempo. Il più piccolo dei figli, James, è eccitato all’idea di affrontare il mare per raggiungere finalmente il faro, l’avventura che ha sempre desiderato è a portata di mano e sua madre è così straordinariamente soave nel creare per lui, come per gli altri figli, un canestro di dolci aspettative, di entusiasmi genuini, di bellezza senza artifici che non è più possibile nutrire dubbi.

Sì, andranno al faro e l’esperienza sarà meravigliosa. Del tutto estraneo al fervore che ha contagiato tutti è il signor Ramsay: la sua presenza, le sue parole, persino i suoi pensieri sono un irritante contrappunto alla sensibilità che sgorga fluida e abbondante da sua moglie. Per fortuna però la luce che, intensa e calda, proviene senza sosta dalla signora Ramsay non dismette neppure per un attimo la sua brillantezza, anche quando il signor Ramsay, imperterrito, continua a spargere lunghe ombre intorno a sé. Il suo atteggiamento è talmente irritante e le sue previsioni del tempo sono talmente pessimistiche che, mentre leggiamo, avvertiamo con disappunto la nostra impotenza di fronte a questa nera presenza.

Piuttosto alimentiamo la speranza che, nonostante i suoi cattivi presagi, la gita alla fine si realizzerà. Intanto le pagine scorrono sotto i nostri occhi e la vita, pulsante e sanguigna, si materializza per noi: Virginia Woolf riesce a renderla tangibile, piena, gravida di sostanza viva, ce ne fa percepire l’odore, il peso, la forma, le vibrazioni. Quasi la stringiamo nel palmo della mano: i pensieri dei personaggi inframmezzano continuamente le loro azioni in un flusso scorrevole e costante di cui ci sentiamo parte, scorgiamo i più lievi riflessi, le più esili sfumature, senza accorgercene abbiamo varcato il confine, siamo dentro la pagina, dentro le impressioni, dentro i tumulti delle anime dei personaggi. L’occasione della gita al faro però sfuma, non ci sarà nessuna avventura, nessun viaggio.

Con un salto temporale siamo catapultati in un’atmosfera radicalmente mutata: sono passati dieci anni, la signora Ramsay è morta, le sue parole di conforto, la sua voce morbida, i suoi gesti pacati e sobri non ci sono più, un figlio è morto in guerra, qualcun altro si è sposato e, infelice, ha trovato un’amante. La casa al mare non è più lo stesso nido accogliente, è stata abbandonata, appare abbruttita come lo sono i personaggi che hanno subìto gli effetti del tempo che scorre, i mutamenti imprevedibili, le catastrofi della vita.  Il signor Ramsay è un uomo alla deriva, l’assenza della moglie è un peso insopportabile, sembra che la sua esistenza non abbia più scopo né argini.

Tutto fa presagire che i legami già deboli tra i sopravvissuti della famiglia si scioglieranno definitivamente, è certo che ognuno tenterà, in un’intima e disperata solitudine, di recuperare per sé i ricordi di un tempo felice; non c’è alcuna speranza di un cambiamento in meglio. La mancanza della signora Ramsay ha il sapore di un’illusione bruciata, di una speranza infranta. Dopo un tempo lunghissimo e molte vicissitudini, il signor Ramsay insieme ai figli James e Camilla ritorna nella vecchia casa delle vacanze. Del tutto inaspettata giunge la sua proposta di realizzare finalmente quella gita al faro che anni addietro fu motivo di delusione e di amarezza. Sulle prime sembra che anche questo tentativo sia destinato a fallire, che anche questa volta non ci sarà per James alcuna avventura.

Eppure gli eventi seguono corsi imprevedibili. I tre prendono una barca, James ha il compito di governarla, Camilla prende posto sulle sue assi, entrambi si aspettano le solite parole dure e l’usuale atteggiamento di impassibile indifferenza del padre. Ma, mentre James rema, accade l’inaspettato. Il signor Ramsay, suo padre, quell’ombra scura che egli ha imparato a detestare, lo elogia, loda la sua bravura di timoniere: James ne rimane profondamente toccato, per una vita intera ha cercato l’approvazione paterna e infine, sorprendentemente, l’ha ottenuta. Accade che in un giorno meraviglioso la barca proceda lenta verso il faro, sul mare indicibilmente azzurro. Nelle ultime pagine compaiono, senza essere saliti sulla barca con i tre Ramsay, il poeta divenuto nel frattempo famoso e la pittrice Lily Briscoe. Quest’ultima, che non era riuscita a completare il quadro iniziato ai tempi in cui la signora Ramsay era in vita, è l’ultimo personaggio che il lettore incontra ed è con lei che Virginia Woolf chiude il romanzo: dalla riva Lily Briscoe vede la piccola barca procedere verso il faro, quindi prende il suo pennello e traccia una linea verticale sulla tela.

Il quadro, così come il passato, è definitivamente concluso. C’è dunque un tempo che segna inesorabilmente il nostro passo, un tempo che pulsa incessantemente di visioni e di incertezze, c’è il tempo dell’assenza, quella feroce bestia che divora la carne, che squarcia le prospettive, che rinfocola il dolore. E poi c’è il tempo che, passando, trascina con sé le storture, che lenisce le paure, che riesuma la fiducia nei cambiamenti, che alimenta la possibilità che tali cambiamenti si avverino. Ed è soltanto in quest’ultimo che l’unica, attendibile occasione per sopravvivere al passato, può avverarsi. “Guardò i gradini: erano vuoti; guardò la tela; era una macchia confusa. Con improvvisa intensità, come se per un istante lo vedesse con chiarezza, tracciò una linea al centro. Era finito; era completo. Sì, pensò, posando il pennello con estrema fatica, ho avuto la mia visione”.

venerdì 16 Novembre 2012

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