Tre uomini in barca (per non parlar del cane)

Luciana De Palma
Le esilaranti avventure di tre giovani uomini, tra il serio e il faceto della vita.
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Se avete un quadro da appendere, vi servirà un martello, un chiodo o forse due, una sedia se avete intenzione di appendere il suddetto quadro più in alto del solito. Quindi, dopo aver deciso il punto in cui fissare il chiodo nel muro, vi basterà qualche colpo ben assestato per avere la soddisfazione, ritornati con i piedi per terra, di ammirare la tela incorniciata. Questa semplice sequenza di azioni è stata trasformata da Jerome K. Jerome nella più spassosa, divertente, inimitabile scena di scrosciante ilarità.

Leggendo le pagine in cui lo zio Podger è descritto mentre sale sulla sedia per appendere il quadro, attorniato da moglie, figli e nipote, intervenuti per sostenerlo nell’impresa, ci si ritrova immancabilmente con le guance rigate dalle lacrime per le risate che, copiose, non smettono di scendere. Ad ognuno di loro è stato affidato un compito preciso: qualcuno deve reggere il martello, qualcun altro i chiodi, qualcun altro ancora deve porgerglieli; nessuno può allontanarsi dalla propria postazione. Ma ecco che il martello inspiegabilmente si perde, quindi è la volta dei chiodi ad andar perduti, per finire lo zio si dà una bella martellata sul dito e all’istante rivolge ai malcapitati familiari ogni tipo di improperio.

I suoi strepiti lo rendono degno di compassione, non tanto per la ferita che si è procurato, quanto perché il dolore che, insieme all’autore, sospettiamo esagerato, sembra essere diventato il dolore di ogni uomo incompreso. Perciò, mentre zio Podger si prende cura del povero dito, occorre affidare alle mani di qualcun altro il martello. Subito dopo ci si accorge che i chiodi si sono persi di nuovo, perciò bisogna urgentemente mettersi a cercarli per poi ritrovarsi tutti a cercare il martello, dopo aver ritrovato i chiodi.

Questo episodio, così come gli altri di cui il romanzo è generosamente cosparso, è narrato dal protagonista, Jerome, il quale, insieme ad Harris e a George, decide di avventurarsi tra i rivoli del Tamigi. Dopo essersi convinto di avere tutti i mali di questo mondo, tranne (e non si sa perché) il ginocchio della lavandaia, Jerome decide che l’unico rimedio contro l’ipocondria è una bella crociera sul Tamigi. Ne parla con i suoi amici i quali convengono che è davvero un’ottima idea: non può che far bene cambiare aria.

Ed ecco che il terzetto comincia ad organizzare il percorso da seguire, discute circa gli utensili da portare e il bagaglio di cui non si può fare a meno. I preparativi richiedono attente analisi preliminari durante le quali sono pure sciorinate interessanti verità filosofiche che servono più a svelare la natura fondamentalmente pigra dei tre che la loro saggezza. Al terzetto si unisce un fox terrier dall’indomito carattere che, pur di restare con le zampe all’asciutto, smentirebbe volentieri il detto che il cane è il miglior amico dell’uomo. Montgomery, questo è il suo nome, vorrebbe svignarsela ancor prima di mettere le gambe … oops! le zampe sulla barca, ma, trascinato dai tre, non può fare altro che seguirli, sperando di ritornare presto alla noiosa, ma tranquilla vita domestica.

Durante la navigazione, che a dispetto delle acque calme del fiume, si rivelerà straordinariamente ricca di avventure, il fedele Montgomery assiste agli originali comportamenti dei suoi compagni di viaggio, alle stravaganti discussioni; li osserva, cercando di schivare le molte stranezze che i tre bipedi mettono continuamente in atto. Di tanto in tanto approfitta dei momenti in cui la barca dell’allegra compagnia attracca a riva per svignarsela e lanciarsi in avventure ben più degne per un cane, salvo poi ripresentarsi quando è ora di cena. Jerome poi ci illustra quanto sia imbarazzante non conoscere le lingue. Racconta che una volta gli capitò di partecipare ad un ricevimento in casa di gente colta e importante, tra dame cortesi e gentiluomini raffinati; tra gli invitati comparivano anche due giovani studenti tedeschi, freschi e a modo.

Nel mezzo della serata viene rivolta una richiesta ad un professore tedesco affinché canti una canzone nella sua lingua. Jerome, come del resto gli altri ospiti, non conosce il tedesco, ma è fermamente intenzionato a non mostrare questa pecca, perciò durante la durata del canto guarderà i due giovani che si sono seduti alle spalle del professore, in modo da osservarli e ripetere le loro reazioni nei vari momenti del canto. A tutti è stato detto che il motivo è allegro e molto divertente e Jerome, intenzionato a fare di più di ciò che dovrebbe, si mette a ridere anche quando i due ragazzi, le cui facce non perde mai di vista, non lo fanno. Il risultato è che il povero professore, serio, compunto, dalla voce profonda e tragica, non riesce proprio a capire cosa ci sia da ridere durante la sua esibizione. Il pubblico pensa che, se il professore non fosse stato così serio, l’effetto comico della cosa sarebbe andato perduto. Perciò Jerome rincara la dose e imperterrito continua a ridere di gusto.

Finita l’esibizione, ognuno afferma che quel canto è stato quanto di più divertente avesse mai ascoltato. Solo dopo le maledizioni in tedesco e in inglese che il professore tedesco ha rivolto ai presenti, si è scoperto che la canzone parlava di una ragazza che aveva dato la sua vita per salvare l’amato e che, morto anche lui, si incontrano nell’aldilà dove lei sarà abbandonata per sempre. Irresistibile è anche l’episodio in cui Jerome, che ama i paesaggi, ma niente affatto le vecchie chiese e le tombe antiche come l’amico Harris, deve sfuggire un custode di cimitero che insiste per mostrargli le tombe più belle e alcuni teschi della sua collezione.

O ancora quando racconta di Harris che, convinto di poter attraversare il labirinto di Hampton Court in dieci minuti, si propone come guida di altre venti persone per condurle, sane e salve, all’uscita, riuscendo invece a perdersi egli stesso e a raccogliere le maledizioni di quanti si erano convinti della sua destrezza in fatto di orientamento. George poi si ingarbuglia come nessun altro con il cavo per trainare la barca e taccia gli altri due, accusato a sua volta, di essere lo scansafatiche della situazione.

Montgomery vuole contribuire alla preparazione di un improbabile stufato irlandese, porgendo un topo che ha catturato: questo viene interpretato come gesto sarcastico nei confronti dell’arte culinaria dei tre. Deve lottare poi contro il fischio della teiera e contro un enorme gatto nero: in entrambi i casi il poveretto ne uscirà sconfitto! Alla fine di tutto ciò che conta per essere felici è avere la pancia piena: “Certuni che ne hanno fatto la prova mi dicono che una coscienza tranquilla rende felici e contenti; uno stomaco pieno però fa lo stesso effetto e ha il vantaggio di costar meno e di essere più facile da ottenere. Ci si sente pieni di nobili pensieri e slanci generosi!”.

giovedì 13 Dicembre 2012

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